Il passaggio ininterrotto dei popoli che hanno attraversato il territorio di Ovodda ha lasciato dietro di sé molte storie da raccontare: come quella della via oviante, via della transumanza su cui si spostavano le greggi dalle montagne alle pianure, o quella della strada romana che passava attraverso le Barbagie percorrendo il versante occidentale del Gennargentu.
Le numerose domus de Janas e i menhir superstiti nelle vicinanze del rio Aratu testimoniano la presenza delle civiltà autoctone che abitarono l’area nella preistoria. Risalgono all’età del Bronzo 4 tombe dei giganti e circa 10 nuraghi, costruzioni simbolo dell’antica civiltà sarda.
Durante l’epoca romana lungo la strada ab Ulbia Caralis (da Olbia a Cagliari) venne costruito un villaggio in località Domus Novas di cui oggi si possono ancora vedere i resti.
Con la fine dell’impero romano si perdono le tracce delle genti che vissero in queste terre fino all’epoca giudicale quando la villa de Ovolla faceva parte del Giudicato d’Arborea ed era compresa nella curatoria della Barbagia di Ollolai. A seguito della guerra tra i re sardi e la corona d’Aragona che si concluse con la sconfitta del Giudicato, nel 1420 tutta l’Isola passò sotto il diretto governo dei catalano-aragonesi. Gli ovoddesi, così come molti abitanti dei villaggi vicini, non abbandonarono le ostilità contro gli invasori che dovettero affidare il feudo ai discendenti del casato d’Arborea sotto i quali le popolazioni mantennero un certo grado di autonomia.
L’abbandono del centro di Oleri (forse a causa della peste che nel XV secolo dilaniò l’Isola) provocò la contesa da parte delle ville confinanti di Ovodda e Gavoi. La questione fu risolta con l’atto che disponeva la divisione delle terre tra i due centri, firmato il 23 maggio 1473 alla presenza del marchese di Oristano Leonardo Alagon. Quest’ultimo guidò la battaglia contro gli iberici nel tentativo di ristabilire il governo indipendente dell’Isola in continuità con il giudicato d’Arborea. Le maggiori forze disposte dal viceré Carroz ottennero la vittoria a cui seguì la confisca delle terre, la prigionia e la morte del marchese.
In seguito il feudo di cui faceva parte Ofolla (così chiamata in un documento del 1499) passò sotto il dominio di diverse famiglie nobiliari che imposero pesanti tributi. Con il passaggio del regno sardo ai Savoia, nel 1720, furono confermati i privilegi feudali. L’ultimo casato fu quello dei Tellez Giron con cui si aggravarono le condizioni di povertà della popolazione che si liberò della signoria nel 1839 pagando il riscatto del feudo.
Dal 1927 il paese entrò a far parte della provincia di Nuoro. A partire dagli anni Sessanta si affermarono nuove prospettive economiche con la costruzione delle dighe sul fiume Taloro, per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, che portarono alla realizzazione del bacino artificiale del Cuchinadorza, divenuto un’importante risorsa paesaggistica.
La natura incontaminata, l’aria pulita, e la bontà del clima sono tra i fattori che hanno contribuito alla felice denominazione di “paese dei centenari” per il numero di anziani che hanno superato i cento anni o che si apprestano a compierli.
Ovodda è un paese montano al confine tra le regioni storiche della Barbagia e del Mandrolisai. I suoi territori, che rientrano nel Parco Nazionale del Gennargentu, spaziano dai rilievi meridionali alle valli formate dai fiumi Tino (a ovest), Taloro (a nord) e Aratu (a est). Quest’ultimo scorre nelle vicinanze della località in cui si sono preservati alcuni menhir dove viene chiamato rio Pedras fittas, nome in sardo di questi monumenti.
Le bellezze del suo patrimonio naturalistico lo rendono la meta ideale per gli amanti dell’escursionismo che possono scegliere tra numerosi sentieri alla scoperta di oasi naturali e importanti resti archeologici rinfrescandosi, lungo il camino, alle sorgenti e ai ruscelli che abbondano in tutta l’area.
Un paesaggio incantato si offre al visitatore che intraprende la scalata alla vetta di Bruncu Muncinale (1266 m) a sud-est (vicino al confine con Desulo). Da qui si può ammirare il manto verde dei boschi di latifoglie che ricoprono gran parte del territorio: alle foreste di lecci si accostano gli alberi di querce, castagni e roverelle tra cui crescono i tipici arbusti della macchia mediterranea.
A sud il Monte Orovole, con le sue cime, Punta Concosu e Bruncu Mealeddu, sovrasta il paese attraversato dal rio Funtanedda (più a nord prende il nome di rio Sapuna Peddes) che a poco più di 1 km a sud-est dell’abitato forma la bella Cascata s’Istracca.
I corsi d’acqua sono l’habitat della trota sarda (Salmo cettii) mentre le montagne ospitano daini, mufloni e diversi rapaci come l’astore sardo e l’aquila reale. Non mancano volpi, ghiri, martore, cinghiali, pernici e picchi rossi mentre i cervi sardi, da tempo scomparsi, sono statti reintrodotti.
Carpe e tinche abbondano nel lago Cuchinadorza, uno dei bacini artificiali nati negli anni Sessanta con la costruzione delle dighe lungo il corso del fiume Taloro per la produzione di energia idroelettrica. Il paesaggio circostante si caratterizza per la scenografica vallata del Taloro che si unisce a quelle formate dal torrente Tino e dal rio Sapuna Peddes. A est del Cuchinadorza si estende una vasta area granitica caratterizzata da affascinanti massi scolpiti dal tempo e dalla natura come le cime del Monte Pizzuri (883 m).
Ovodda è conosciuto come il paese di centenari che ha saputo custodire le proprie tradizioni secolari tra cui la più famosa è quella di su Mercuris de lessia (‘Mercoledì delle ceneri’). A differenza del resto dell’Isola in cui i festeggiamenti del carnevale si concludono il cosiddetto martedì grasso, il momento culmine del carnevale ovoddese si svolge proprio il primo giorno di Quaresima. In questa festa della trasgressione vagano per le vie del centro sos Intintos, uomini con la faccia ricoperta dalla fuliggine, e gli Intinghidores che, con polvere nera, sporcano il viso di tutti quelli che incontrano nel percorso. Le maschere portano in giro Don Conte Forru, simbolo dei poteri religiosi e politici, che viene deriso e al calar del sole viene giustiziato e dato alle fiamme.
I monumenti più antichi che si incontrano nel territorio sono le numerose domus de Janas (facilmente raggiungibile quella di S’Abba Bogadavicino alla fontana omonima), spettacolari sepolture preistoriche scavate nella roccia che, nelle tipologie più complesse, si sviluppano in più ambienti (ad es. quelle di Domus Novas e Serrindedda) e in alcuni casi presentano decorazioni che imitano elementi architettonici delle abitazioni (come quella di Sos forreddos de Ghiliddoe). Due menhir mantengono la loro posizione originaria vicino al rio Aratu che, per la presenza dei monumenti, viene chiamato in questo tratto rio Perdas fittas (nome in sardo dei menhir).
All’epoca nuragica risalgono 4 tombe dei giganti (Donnovegoro, Govolo Sa Heresia, Lopéne, Nieddio) e una decina di nuraghi di cui i meglio conservati sono il Campus (o Biddusai) con una torre di 5 metri, quello di Finonele a sud-est dell’abitato, e di Osseli intorno al quale si distinguono i muri delle capanne del villaggio nuragico che affiorano dalla vegetazione.
I ruderi del centro romano di Domus Novas, che sorgeva sulla via di penetrazione ab Ulbiam Caralis, testimoniano il passaggio della strada, citata nel III secolo dall’itinerario antonino, che attraversava l’Isola per circa 254 km.
Strette stradine di ciottoli si intersecano nel bel centro storico caratterizzato dalle tipiche case in granito dotate di corti interne. Le abitazioni tradizionali erano realizzate a uno o due piani: al piano terra vi era la cucina con, al centro, il classico focolare usato sia per riscaldarsi che per cucinare. La camera da letto si trovava a fianco della cucina o al piano superiore realizzato con travi in legno a cui si accedeva tramite una scala in legno.
I palazzi più antichi sono concentrati intorno alla cosiddetta domo de sos cavalleris (‘casa dei cavalieri’), dimora signorile del Settecento che conserva un grazioso pozzo nel cortile privato. Nelle vicinanze si trova la chiesa di San Giorgio Martire di cui si ha notizia già nel Medioevo. La struttura attuale è stata edificata nel XVII secolo in stile tardo-gotico a cui si è aggiunto nel 1798 il campanile in granito. All’interno custodisce preziosi arredi sacri e una interessante statua lignea di San Pietro in cattedra che risale alla seconda metà del Seicento.
Tra le feste più sentite vi è quella che gli ovoddesi celebrano il 28 e 29 giugno nella chiesetta campestre di San Pietro mantenendo la promessa fatta a Leonardo Alagon. L’edificio apparteneva in origine alla villa di Oleri, disabitata a causa della peste. Nel 1473, alla presenza del marchese d’Oristano, i suoi territori furono spartiti tra Gavoi e Ovodda sottoscrivendo l’atto nella chiesa che all’epoca appariva in rovina e che i due paesi si impegnarono a recuperare.