Il misterioso menhir Sa Perda Pintà (o stele di Boeli) è uno dei meravigliosi ritrovamenti scoperti nel comune di Mamoiada. Le eccezionali decorazioni incise sulla superficie sono state realizzate durante la cosiddetta “Cultura di Ozieri” compresa tra il 3200 e il 1800 a.C.
La straordinaria varietà e quantità di resti archeologici disseminati nel territorio rivelano come l’area fosse abitata fin dalla preistoria: risalgono al Neolitico le pedras fittas (menhir), le domus de Janas (tombe scavate nella roccia) e i dolmen, mentre nell’età del Bronzo furono realizzate le tombe dei giganti, i nuraghi e un pozzo sacro, testimoni della grande civiltà nuragica.
Durante l’età romana nei pressi del centro passava l’importante strada militare che attraversava l’Isola collegando Olbia con Cagliari, attraversando le stazioni romane di Caput Tyrsi (Buddusò), Sorabile (Fonni) e Biora (Serri). Si pensa che l’origine dell’attuale abitato risalga alla fondazione di una fermata o stazione romana di nome Manubiata che deriverebbe dal verbo latino manubiare (sorvegliare). A sostegno di questa ipotesi si conservano alcuni toponimi come quello dell’antico quartiere Su Castru che rimanda al termine latino castrum ossia ‘recinto fortificato’.
Nell’alto Medioevo, con la fine dell’Impero Romano d’Occidente, la Sardegna entra nell’area politica e culturale dell’Impero Romano d’Oriente. Della presenza bizantina a Mamoiada resta traccia nel culto dei santi Cosma e Damiano e nel santuario a loro dedicato a pochi chilometri a sud-ovest del paese.
L’odierno nome del centro compare per la prima volta come “Mamoyata” nei documenti medievali delle Rationes Decimarum, un registro delle decime imposte dalla Santa Sede del XIV secolo. In quest’epoca il villaggio era compreso nella curatoria della Barbagia di Ollolai, una delle circoscrizioni amministrative del Giudicato d’Arborea. La popolazione (discendente delle cosiddette civitates barbariae che si scontrarono spesso con i romani per il controllo delle terre) godeva di una certa autonomia e forniva i guerrieri per l’esercito giudicale.
Dopo la grande guerra dell’Arborea contro gli Aragonesi la giudicessa Eleonora dovette firmare il trattato di pace del 1388 con gli invasori iberici. Tra i sottoscrittori della pace figurano anche diversi jurati (giurati) e abitanti della villa di Mamujata. Con la definitiva conquista aragonese il centro venne incluso nel marchesato di Oristano e quando la carica di marchese toccò a Leonardo Alagon si riaccese la rivolta dei sardi contro i conquistatori. Quando Alagon venne sconfitto nel 1478 Mamoiada fu condannata a secoli di sfruttamento signorile che proseguirono anche con le successive dominazioni spagnola e piemontese.
L’amministrazione dei feudatari divenne via via sempre più oppressiva; nel XVIII secolo gli abitanti iniziarono il loro percorso di liberazione dal giogo feudale istituendo il consiglio comunitativo e il Monte Granatico fino alla definitiva abolizione del feudalesimo nel 1838.
Nel Novecento il paese è divenuto famoso per i suoi antichissimi riti legati al carnevale: a partire dal 1951 sono stati pubblicati diversi studi sulle maschere dei Mamuthones e Issohadores riconosciute come simbolo di Mamoiada nel mondo.
Intensi profumi delle uve arricchiscono un paesaggio pieno di suggestioni in cui predomina la vite e il castagno che ricoprono di caldi colori la valle e le dolci colline intorno al paese di Mamoiada.
Su fertili terreni d’origine granitica, con microclima temperato e alte escursioni termiche tra il giorno e la notte, prosperano le vigne da cui si ottengono rinomati vini, produzioni eccellenti delle cantine locali e importante risorsa economica del centro. Nelle campagne, infatti, si pratica una viticoltura di montagna con forme di allevamento tradizionale in cui è preservata la biodiversità dei vitigni autoctoni come il Cannonau e la Granazza dai quali si ricavano pregiati vini rossi e straordinari bianchi con una gradazione alcolica che arriva a superare i 16 gradi.
Abbondanti sorgenti e corsi d’acqua danno vita una natura rigogliosa che si estende sulle distese di pascoli percorse dalle numerose greggi. L’allevamento, una delle principali attività produttive, caratterizza il paesaggio anche per la presenza dei cosiddetti “sentieri dei pastori”, incantevoli strade rurali della transumanza da cui si possono intraprendere deliziose escursioni a piedi o in mountain bike.
Percorrendo questi antichi cammini si incontrano gli estesi e luminosi boschi di roverella dove, nelle stagioni calde, gli esperti micologi vanno alla ricerca delle appetitose specie di funghi tra cui porcino e ovolo.
A sud-est il percorso si trasforma in scalata sui rilievi che si innalzano verso il massiccio del Gennargentu a confine con i territori carsici del Supramonte di Orgosolo.
Sull’Altopiano di Lidana che occupa la superficie comunale a sud-ovest, a circa 6 chilometri dal paese, si incontra l’affascinante santuario campestre intitolato ai santi Cosma e Damiano. La chiesa è al centro di uno spazio circolare racchiuso dalle cumbessias, piccole abitazioni che ospitano i fedeli durante la novena e i giorni di festa formando una sorta di micro villaggio.
Una passeggiata tra le campagne rivela straordinarie testimonianze del passato: disseminati tra la natura incontaminata gli appassionati di archeologia potranno scoprire antichi monumenti preistorici delle civiltà che abitarono queste terre nel Neolitico e durante l’età nuragica.
Il 17 gennaio con la festa di Sant’Antonio Abate ha inizio il carnevale isolano con l’accensione dei grandi fuochi rituali. In questa occasione ogni anno a Mamoiada si ripete un antichissimo cerimoniale animato dalle maschere tradizionali più famose dell’Isola: Mamuthones e Issohadores. I primi portano sul viso una maschera nera, intagliata nel legno di pero selvatico o ontano, con tratti molto marcati e indossano pelli ovine su cui viene sistemata “sa carriga”: circa 30 kg di campanacci legati sulle spalle. Durante la sfilata per le vie del paese e intorno ai fuochi, i Mamuthones incedono con un particolare passo, quasi una danza, guidati dagli Issohadores. Questi ultimi sono vestiti con elementi maschili e femminili dell’abbigliamento tradizionale e sono così chiamati perché portano sa soha, la fune con cui prendono a lazzo le persone. Non si conosce con sicurezza il significato di questa arcaica rappresentazione che ha affascinato e continua ad appassionare studiosi di tutto il mondo.
Diversi esemplari di queste straordinarie maschere sono esposti nel Museo delle Maschere Mediterranee in cui si possono ammirare altre rappresentazioni del carnevale barbaricino a confronto con le maschere di alcuni paesi europei e mediterranei.
Per approfondire la conoscenza delle tradizioni locali e della storia e cultura del territorio si può visitare il Museo della cultura e del lavoro che vanta una interessante collezione dei meravigliosi abiti tradizionali. Sulla facciata del museo sono conservate alcune strutture architettoniche di stile aragonese risalenti al Medioevo che un tempo abbellivano diversi edifici del paese.
Il centro storico si sviluppa dalla via principale che attraversa il paese; da qui si accede alle strette e intricate viuzze su cui si affacciano le tipiche case barbaricine a due o tre piani realizzate con blocchi di granito.
Passeggiando tra i vicoli dei quartieri più antichi si possono visitare alcune graziose chiese tra cui la più caratteristica è quella dedicata a Nostra Signora di Loreto. Probabilmente fu costruita in epoca medievale ma i primi documenti in cui è citata la chiesa risalgono ai primi anni del Settecento. La sua particolarità è data dalla forma circolare chiusa da una cupola a base esagonale e viene anche chiamata “Loreto de bidda” distinguendola così dalla chiesetta campestre di Loret’Attesu del XVIII secolo a circa 2 km a nord-est dell’abitato.
Uno dei più suggestivi santuari dell’Isola si trova a 5 km a sud-ovest del paese. L’antica chiesa medievale dei santi bizantini Cosma e Damiano è racchiusa in un piccolissimo villaggio formato dalle cumbessias ossia le case dei pellegrini che qui si stabiliscono nei giorni della festa in onore dei Santi e durante la bella stagione.
Tra i tesori del territorio vi sono i meravigliosi siti archeologici con monumenti che risalgono fino al Neolitico. Tra i menhir quello di sa Perda Pintà (o stele di Boeli) conserva splendide decorazioni incise sul granito, datate alla Cultura di Ozieri (3200-1800 a.C.), che lo rendono unico in Sardegna: misteriosi centri concentrici e bastoni uncinati rimandano ad arcaici rituali di fertilità o al ciclo della vita e della morte.
Al Neolitico risalgono anche le numerose domus de Janas, qui chiamate anche concheddas, sepolture scavate nella roccia, tra cui si segnalano quelle della necropoli di Istevene in cui si possono ammirare alcuni simboli tipici della religione preistorica come le corna taurine.